Ed. Il Ventilabro, Roma – 1994
CANTI DI TERRITORIO
Segreta linfa
Segreta linfa
Dopo la gelata
Il segno
Pietre vive
Battigia
Pioggia
Anemocoro
Attesa
Effusioni
Metamorfosi
Annunci
Idi di marzo
Suburra
Equinozio
Botanima
Transito di stagione
Sospirata riva
Comunque
Assonanze
Pasqua
Equilibri
A una rosa
Vespro
Vittorie
Semprevivi
Acrobati
Ecocidio
Sisifo
Sannio
Solstizio
La salamandra
Solaria
Penelope
Antiche strade
Decollo
Pegni di cielo
Esercizi di volo
Rovine
Schiarita
Prospettive
Cenere
Lungo le mura
Il miele e il sale
Il miele e il sale
Porta dei leoni
Sparta
La Pantanassa
Agorà
Sul molo
Cnosso
Lasithi
Maratona
Parnaso
Delfi
La tela
La tela
Nuvole
La scala
Ordàlia
Occhi
Avigrafia
Visita di Pasqua
Rigenerazione
Amiche
La piazza
Evocazione
Temporale
Palpiti
Madrigale
Oltre
Ipòstasi
Sposa bambina
Estate
Canicola
Il fuoco
Carpe diem
Commiato
Partenza
Traghetto
Corteo nuziale
Il baratto
Uomo grande
Aucupio
Elegia
Fine stagione
La scorza
San Martino
La fenice
Il recinto
Percezione
Approdi
L’obolo
Percorsi
Essenza
Viandanti notturni
Voltando l’anno
La voce
La voce
Alla Musa
La gemma
Primaluce
Girotondo
La pianta
Prima messa
Leggero
Randagi
Domenica
Risveglio
“Variazione”
Omen
Correnti
Luna crescente
Concordanza
Fede
Danzatrice
La cicala
Marea
Il ritorno
Favole
Avvento
Opera tessile
Parabola di ritorno
Narciso
Segno di fuoco
VOLENDO VOLARE
Cupio dissolvi
Cupio dissolvi
Il testimone
Relitti
Sciopero
Fuori dell’uscio
Il bacio
Viado
Esuli
La guerra
Inganni
Inganni
I numeri
Panacee
La forbice
Esegetica
Turismo
Feticci
Sic transit
Medaglie
Militaria
Archeologia
Elezioni
Il buongoverno
Tilt
Tilt
Traslazione
Velocità
Ali
Mala tempora
Bonsai
Computer shop
Cavie
Il cavallo
A tavola
Concerto a Venezia
Le Fonti del Clitunno
Civiltà
Ritorno al paese
Sotto la quercia
Soap opera
Museo
La soma
L’uomo sandwich
Senescenza
Il Maestro
Scherza coi fanti
Qualcosa in più
Qualcosa in più
Ruoli
La creazione
Processione
Amore nonostante
Uomini e rose
Briganti
Dedizione
Il politico
Periferia
Caritas
Aureole
Terra in cielo
Preghiera
Nel presepe
Ai poeti
Alla patria
Argonauti
ANEMOCORO
Tu conosci la voce, ne paventi
e aneli insieme l’urto che ridesta
sopite essenze, l’oricalco grave
che aduna sciami da lontane rive,
facendo primavera di germogli
su inerti rami, suscita nei torpidi
gameti, negli embrioni, il desiderio
di ricreare sèpali e corolle,
e tutto freme, tutto si riscuote
all’impeto sonoro che feconda.
Il taràssaco inalbera un flabello
di lanugine bianca, l’hamamelis
proietta a catapulta dai rigonfi
carpelli del suo involucro un rosario
di grani alla distanza. Vorticando
veleggiano samare nel sinibbio
crudele di febbraio. Tu la senti
vibrare dal profondo l’armoniosa
arpa veemente, sciogliere sostanze
quiescenti nei rigori dell’inverno.
Rinate linfe pulsano all’interno
dei tronchi, vitalizzano floemi,
e occulte forze spingono al ritorno
lungo gli alburni il verde delle gemme.
Pervade un’ansia i germi nelle pissidi,
nelle drupe oscillanti alla buriana
che sprona dure capsule ad aprirsi,
divarica agli strappi laceranti
suture di silique, tegumenti
gelosi, scrolla spore dalle felci,
e squarcia repli, cercini aggrumati
discioglie ai primi cenni di tepore.
Fiorito in abbandono, uguale il cuore
espone le sue colme infruttescenze
al turbinoso vortice, sperando
che un impaziente achenio, svincolandosi,
s’ingolfi d’aria, navighi all’ incontro
con la fervente zolla, la prescelta
ad ospitare il granulo vagante.
Potessero le sillabe taciute,
le interdette parole liberarsi
dai follicoli ottusi, propagarsi
ai colpi del furente ventilabro
che sparge vita al tempo designato.
Volare a lei, raggiungere il suo stimma,
agglutinarsi al miele che promette.
Nell’umido suo grembo germinare.
METAMORFOSI
Che disfatte galassie, nebulose,
relitti di selenici naufragi
nel corso della notte hanno cosparso
il prato, le distese d’erba vergine,
col fasto d’uno strascico perlato.
E ora nell’ampiezza del mattino
il cielo muove nuvole che paiono
lacerti di smembrati continenti.
E marzo ha un duro valico di giorni:
s’estenua lungo l’erta della scorza
la nuova linfa, e intanto schiude il vento
le gemme nei roseti, e l’albaspina
svegliando copre d’un prodigio il bianco.
L’amore è questa urgenza di fiorire,
un brulicare di sostanze acerbe:
noi lo sentiamo, ne avvertiamo il premito
che vuol mutare in frutto luminoso
il seme buio che passò l’inverno.
E come serpe che ritrova il sole,
il versipelle cuore si rinnova.
LA TELA
L’amore, sai, non è Paolo e Francesca:
passione, tradimento, gelosia,
ebbrezza, voluttà, lussuria e vezzi.
Può essere anche questo, ma non dura.
Quello che resta e supera la vita
è la virtù di tessere la tela
a quattro mani, senza mai stancarsi,
riprenderla daccapo se si sfila,
indovinare i sogni ed i pensieri,
saper dosare impulsi e desideri,
dire l’amore con parole brevi,
stemperare l’orgoglio, vino forte,
con l’acqua di una duttile indulgenza.
Essere amici, questa è la ricetta,
e la pazienza il giusto condimento.
E poi vegliare il fuoco notte e giorno,
ché la felicità viene di certo,
e consumarla in due è la ricompensa.
L’OBOLO
M’accoglie un lieve sole dicembrino
ai piedi della Vergine Maria
dipinta in bei colori sul portale
al numero quaranta della via
limitrofa al Teatro dì Marcello:
io sono un mendicante dell’estate,
la mano tesa, l’anima dimessa,
chiedo un boccone per sfamare il cuore.
E passi tu, col cielo dentro gli occhi,
barbagli d’oro e grano tra i capelli,
e con la carità del tuo sorriso
sfiori il mio palmo sussurrando: «Vivi!».
ALLA MUSA
È un fiume senza ponti il nuovo giorno:
dovrò guadarlo col tuo amore in spalla,
senza invocare aiuto, solitario,
meno che mai svelando la paura
d’aver smarrito pertica e scandaglio.
Condurti all’altra riva, questo devo,
cantando se più forte è la corrente,
grave il fardello, la speranza corta.
Amarti quanto più mi spingi a fondo,
quanto più morde il giogo sulla carne.
Duttile servo, preda consenziente.
E non gridare quando, all’altra sponda,
m’ordinerai di riportarti indietro.
MAREA
Dimenticato così a lungo, il cielo
impone agli occhi signorie d’azzurro
e il sole è un peltro fuso che balugina
tra vele sparse in docili pattuglie,
su domi pettinati da correnti:
convesso dinamismo. L’ aria muove
riflussi inestinguibili, sfilaccia
nembi veloci in bioccoli evocanti
forme elusive d’angeli. assorbite
dal ripido orizzonte, dal cratere
delle montagne nitide. Sospinge
il mare cose vive nel suo flutto,
ne lascia i resti alle battigie sterili,
manna salina, plancton periegetico
di cui si nutre il nautilo vagante
che dondola in caduta sull’ abisso
e non smarrisce la sua rotta, scivola
tra intrichi di sargassi, proponendo
mistero, virtuosismo, sortilegio
agli argonauti senza meta, senza
vittorie nelle imprese care ai numi,
proscritti d’ogni terra, noi randagie
onde sospinte, fustigate, onde
che frangono alle rocce, si rincorrono
per fondersi con altre, separarsi,
riprendere il cammino, ricercarsi,
e ancora unite rompere alle rive
in schiume ribollenti, in calme inerti
ai dolci amplessi di lagune oziare
specchiando il cielo, cogliere i profumi
spezie e mirti, e lente rifluire
dal chiuso di barriere coralline
al grande oceano, fervide nel grembo
di semi da portare ai lidi estremi.
E senza fine poi ricominciare
agli estri della luna il gioco effimero,
o più sublime l’altro, cui s’affida
la nostra vita errante tra due rive,
tra cielo e terra, l’incessante, eterno:
onda che insegue l’onda fuggitiva.
IL RITORNO
Era venuto da Sidone in nave,
pagando il suo passaggio coi responsi
che traeva dai segni delle stelle,
e il capitano prima di sbarcare
gli aveva regalato due sesterzi
perché se li godesse al termopolio
e nei bordelli, se gliene avanzava.
Il marinaio lo scortò alla riva
e sogghignò nell’augurargli “Vale”,
affidandolo a Bacco e alla dea Venere.
A ben pensarci, era un soggetto strano
quel viaggiatore, specie d’indovino
che interpretava il volo degli uccelli
prevedendo schiarite e fortunali,
e aveva gli occhi di bagliori accesi,
oppure senza fondo, come il mare.
E se guardava, ti leggeva dentro.
Tornava a casa dopo un lungo tempo
Fausto Liburno, figlio di Marcello,
vissuto in India, Egitto, Grecia e Persia,
frequentando le scuole dei Misteri.
In Palestina aveva visto un uomo
ricevere la morte per amore.
Baciò la terra presso il decumano
e diede le monete a un mendicante.
Trasse l’acqua da un pozzo, colse un fico,
annodò stretti i lacci dei calzari,
passò davanti ai templi degli dèi
romani, sfavillanti d’ori e stucchi:
Cerere, Marte, Giove, e ai santuari
delle divinità dai culti arcani:
Iside, Mitra. Tanit ed Astarte.
Notò gli infermi al valetudinario
di Serapide, nume guaritore.
Ignorò le taverne e i lupanari.
Udì ruotare macine ai mulini,
i mantici ansimare alle fucine.
Gli giunse il canto delle lavandaie
intente a risciacquare toghe e pepli,
il grido dei tintori alla fullonica
e il loro cadenzato trepestío.
Ostia ferveva di ricchezze e lusso:
terme, botteghe, fondachi e mercati,
alitando quei fremiti di vita
a lui, stupito come uno straniero.
Era tornato povero di panni,
leggero di bisaccia e di scarsella.
Ma dentro aveva un regno di parole
per infiammare gli uomini di luce.
Prese la via dell’Urbe a passo lieve:
portava a Roma la semente nuova.
SOAP OPERA
Il mèntore catodico inveisce:
«T’ammazzo!» e la minaccia si propaga
magnetizzando il buio, raggricciando
il volto della notte. In ogni casa
fibrilla il suo riverbero fosforico
mentre s’irradia l’onda di quel monito
sui tetti, per le strade, torno torno.
Insonne la città viene a sapere
che Cheryl se la intende col nipote
di Quincey, importatore di diamanti,
che sta per divorziare da Vanessa
e a giorni si vedranno in tribunale
per concordare il quid degli alimenti.
Intanto Lisa scopre che la tresca
tra Vicky e Jamie rischia di mandare
a monte la sua ascesa nella holding
di Philip Manson padre del bambino
che Frankie Losco tenta di rapire
per vendicarsi dell’assorbimento
che l’altro ha realizzato sottraendogli
con quel tranello l’Harvest Corporation.
Ma poi desiste quando gli rivelano
che il concorrente ha un cancro alla laringe,
gli resta appena un mese, e la sua amante
Johanna è già salpata per le Antille
insieme a un petroliere messicano.
E tra le infamie, i furti e gli adulteri,
passando da un incesto a un tradimento,
la civiltà procede a tutta forza
verso l’impatto col fatale iceberg.
Cede la chiglia, scricchiola il fasciame,
l’ordinata sconnessa imbarca l’acqua
che aggottano profeti e mentecatti.
Eppure va. Sul cassero il negriero
dal cinescopio superluminoso
con voce stereofonica ruggisce:
«Ti ridurrò sul lastrico, Alexandra!».
SENESCENZA
Li ricordate i vecchi di una volta,
quelli seduti al rezzo presso l’uscio,
pipa di coccio e coppola di cencio,
i più devoti col rosario in mano?
Tutt’uno con la paglia della sedia,
passavano le ore e le giornate
a raccontare favole ai bambini
accarezzando il gatto di famiglia,
e se un parente aveva un contrattempo
e non sapeva come comportarsi
per ritrovare il capo del gomitolo,
il vecchio, riflettendo calmo e serio,
pescava dal suo pozzo d’esperienza,
se non la soluzione dell’inghippo,
almeno la ricetta che aiutasse
a sopportare il guaio con pazienza
sempre fidando nella Provvidenza.
Erano punti fermi quei vegliardi,
un’àncora nel flusso degli eventi,
una lanterna al fondo della notte.
Se pure in gioventù l’intemperanza
li aveva resi alquanto trasgressivi,
scontavano i peccati con gli acciacchi
e reprimendo tanti desideri,
sicché, dopo vent’anni di vecchiaia,
sfioravano l’ascesi dei conventi
ed il profumo della santità.
Oggi però di vecchi in quanto tali
non v’è pìù traccia, sono specie estinta.
Per acquisire un fisico avvenente
si tirano, si truccano, camuffano
i segni dell’età con gli artifici
della cosmesi e della medicina.
Decollano per Cuba e le Seychelles,
fanno la marcialonga in Engadina,
salite al Machu Picchu e all’Himalaya,
pilotano vetture ipercompresse
chiedendo strada ai giovani più lenti.
Volendo a tutti i costi l’efficienza
non sanno più fermarsi né distinguere
dov’è la vita e dove la demenza.
SCHERZA COI FANTI
Il Presepe vivente ha richiamato
gente dalla città, gente dai borghi.
Chi è venuto per fede, chi per sfizio,
chi per curiosità, chi per diporto.
Si sono messi tutti incolonnati
ad aspettare il turno con pazienza,
mentre comparse, divi e comprimari
vanno agghindati in vividi costumi
per animare la scenografia
intesa a rievocare tempo e luogo
di un evento che dura e che commuove
a dispetto degli anni e del cinismo.
Il regista ha disposto i personaggi
in un ambiente tra rurale e agreste,
che si conformi meglio con l’assetto
dei vicoli nel borgo medievale.
Stalle, mulini, torchi e spezierie
riportati ai fulgori del passato,
ed i mestieri riscoperti a nuovo
quali il pastore, il fabbro, l’arrotino,
il maniscalco, il falegname e un prete
col tricorno dismesso in liturgia
già prima che venisse dal Concilio
bandito come pezzo da parata.
Matrone, villanelle e forosette,
adornate dì pizzi e di merletti,
incedono con cesti di primizie
ed anfore sui cèrcini di pezza,
celiando allegre presso l’osteria
dove fantesche con gli zinaloni
versano dagli orcioli vino fresco,
ed un norcino mostra una gran scelta
di salsicce, ventresche e soppressate,
intanto che un araldo grida al volgo
di non gettare l’immondizia in strada,
pena l’arresto e sei tratti di corda.
È un vivace bailamme che stordisce
e i recitanti scambiano frecciate,
mettendosi in berlina per copione.
Ma quando poi s’arriva alla capanna
posta nel mezzo d’una chiesa antica,
alquanto dirupata, senza altare,
si trasforma l’umore tutt’a un tratto.
San Giuseppe, compreso del suo ruolo,
austero s’erge al centro della sala,
e la Madonna, in estasi beata,
si stringe al petto un pupo in carne e ossa
che, nonostante il freddo, non si lagna,
facendosi ninnare buono buono.
Ma ecco che dal gruppo dei generici
la voce d’un brigante maremmano
apostrofa Giuseppe canzonandolo:
«Aggiustati la barba, ché ti casca!».
E il padre di Gesù, calmo e solenne,
alza il bordone che sorregge al fianco,
vibrandolo sul capo del marrano,
che prende il colpo senza replicare.
S’accendono i bengala tutt’intorno.
Nell’aria s’alza un coro celestiale.
Di colpo diventati gravi e seri
si mettono in ginocchio i figuranti
permeati da un senso di mistero:
in una messjnscena da teatro
il Redentore nasce per davvero.
IL POLITICO
Il politico è, tutto sommato,
un uomo come tanti, deputato
a recitare i ruoli più svariati:
padre, fratello, socio, protettore
e a volte, quando occorre, servitore.
Poiché la sua funzione principale
è dare voce a chi non ha parola,
caricarsi la soma dei problemi
di chi non ha la forza né il mordente
e dice: va’ tu avanti ch’io ti seguo,
mentre gli affida vuota la scarsella
sperando che il tutore designato,
con manovre, decreti e buone leggi,
la colmi di ricchezza, di benessere,
o al peggio che gli dia la sicurezza
di vivere e morire in dignità.
Il politico è, tutto sommato,
un uomo come tanti, delegato
a mantenere fede alle promesse,
meglio se sono poche, non potendo
operare prodigi come i santi.
Gli si perdona tutto se fallisce,
ma non ha scuse per il tradimento.
Se onora la fiducia della gente
muovendo le vicende della storia,
avrà l’amore come ricompensa
e il nome scritto sopra un monumento.
ALLA PATRIA
Eppure sarai salva, Italia mia.
Hai cuore saldo, spalle di granito.
E quando lo vorrai, dalla tua chioma
e dalle vesti in brani spazzerai
con un sol colpo blatte e parassiti
che succhiano il tuo sangue, riducendoti
a larva spenta della gloria antica.
Ti salverai, lo hai fatto mille volte,
con le virtù dei padri ora obsolete:
pazienza, fede, integrità, giustizia.
E la bellezza tornerà a risplendere
nelle contrade e i borghi risanati
dalle moderne pestilenze e piaghe,
disinfestati da briganti e rei
che hanno prostrato le tue genti. E i neri
serti di lutto varieranno in festa.
E taceranno i corvi che ti vogliono
smembrata come ai tempi dei granduchi,
divisa in staterelli da operetta,
asserragliata in roccaforti, ognuna
ricurva sulla propria intolleranza.
T’affrancherai dai ceppi sollevando
la fiera testa e avanzerai decisa,
solenne, verso i fasti rinnovati.
E noi, fedeli, ti verremo dietro.