Ed. CambiaMenti, Bologna – 2008
Il pomeriggio di quel venerdí stabilito per andare al Box ad incontrare Klotzer, gli toccò assistere a una partita di mindball, che suo figlio Barton e la squadra del Club dei Telepatici avevano organizzato nel campo sportivo del Circolo Universitario al Livello 4. Piú che di una gara competitiva, si trattava di un test dimostrativo delle capacità telepatiche dei membri del Club di cui Barton era l’animatore e il coordinatore scientifico. Essendo il Circolo non molto distante dalla Sede del Gran Consiglio e dagli altri edifici governativi che sorgevano nello stesso Livello, tutto il gotha direttivo dell’Archivio e degli altri uffici era presente, con Geon Black a pontificare, emergendo in tutto il suo sussiego dalla folla che gremiva le gradinate del campo.Il Numero Nove sedeva attorniato dallo stuolo dei giovani rampanti, veri e propri crotali delle discese numeriche, pensava Chris mentre li osservava agitarsi e contorcersi nella piaggeria piú sinuosa e umiliante intorno al demiurgo che teneva in pugno i loro destini, e che ora godeva del loro strisciare, del sibilare dei loro omaggi verbali, autentica corte di plaudenti disposti ad ogni ferocia o bassezza nei confronti dei loro concorrenti, per ottenere una cifra in meno. Nei loro occhi Chris notava sprazzi di una luce magnetica, dal potere ipnotico, che mentre fingeva di blandire e avvolgere, in realtà annunciava la voglia occulta di fagocitare l’interlocutore-preda. Notò tuttavia con una certa consolazione che Barton non aveva bisogno di strisciare. Era nella stima piú totale di Geon Black, che lo trattava visibilmente da suo delfino e campione. Ora capeggiava la squadra dei Verdi, contrapposta a quella dei Rossi. Le due formazioni, composta ciascuna da undici elementi, si fronteggiavano non sul quadrato di gara, bensí disposte nelle due curve opposte del campo, un ovale che poteva ospitare un migliaio di spettatori.
Mary non sarebbe potuta venire, perché aspettava il tecnico che doveva riparare il disintegratore dei rifiuti, e ci teneva a essere presente lei di persona, ma aveva rinviato il turno del tecnico per partecipare, insieme al marito, alla gara dimostrativa allestita da Barton. Una sua assenza sarebbe stata notata, e non tanto avrebbe potuto danneggiare la sua scala numerica, quanto avrebbe influito su quella del figlio, seppure in forma trasversale. Ogni umore pro o contro il Regime, anche il piú impercettibile manifestato da una persona, veniva rilevato e registrato.
Mentre stava seduto nel suo comodo posto da cui poteva vedere il rettangolo di gioco, Chris lasciava che queste idee fluissero libere alla mente. Osservava suo figlio che si muoveva con disinvoltura in mezzo al corteggio di Geon Black, cosí come aveva fatto durante l’inaugurazione del lago, e si chiedeva quanto Barton gli somigliasse animicamente, assodato che lo era geneticamente e per linea di sangue. Ma quanto incidevano sulla sfera genetica la condizione di Mater, il genio del luogo che ne infestava ogni angolo e anfratto, la stessa aria chimica e il cibo sintetico di cui la gente viveva? Fino a che punto suo figlio gli apparteneva biologicamente? Era certo che la dimensione nella quale sopravvivevano aveva da tempo iniziato a falsare i corredi cromosomici dei materiani nati dentro, a provocare mutazioni ancora in embrione ma che col progredire degli anni, se mai ne restavano tanti da vivere, si sarebbero manifestate apertamente, con tutte le disastrose conseguenze. Ma ora suo figlio era lí, e trionfava su ogni mutazione in divenire, padrone e gestore di ogni molecola del suo apparato fisiologico. Doveva, poteva esserne fiero?
La tribuna centrale, dove sedeva in gloria Geon Black col suo stuolo di adulatori, dominava il campo, uno spazio rettangolare con una superficie a specchio molto levigata. Il gioco riproduceva lo stesso meccanismo dell’antico Subbuteo. Su quella spianata lucida e scivolosa, percorsa internamente da emissioni magnetiche, si fronteggiavano due squadre formate ciascuna da undici robot, divisi anche loro in verdi e rossi, i colori di cui erano dipinte le parti esterne delle armature in titanio. Dietro la schiena ciascuno dei cyber-giocatori portava una placca sensibile con sopra marchiato il numero di ruolo, lo stesso del giocatore in carne e ossa che dalla sua postazione a bordo campo lo comandava telepaticamente.
“Master” e “Slave”, cosí venivano denominati nel gergo coniato da Barton e dai suoi collaboratori il giocatore umano che comandava e il robot che gli obbediva, eseguendo le mosse e gli spostamenti suggeriti a distanza tramite le onde cerebrali. Per potenziare le quali, i master disponevano di un modulo posto sotto la poltrona sulla quale sedevano. Due manopole erano inserite nei braccioli, da cui scaturiva l’energia magnetica che, effusa dal congegno, risaliva a un sensore posto dietro la nuca e da qui, attraverso due conduttori al bario protetti da guaine isolanti, raggiungevano un sensore unificato posto sulla fronte dell’agente telepatico, altro nome dato al master. Da questo polo saturo di magnetismo attivo scaturivano gli impulsi cerebrali che impartivano i comandi per il robot operante sul campo, facendogli compiere quei movimenti utili alla strategia di gioco, imponendogli di scivolare piú o meno rapidamente, di bloccarsi, di ruotare su se stesso, di flettersi o inarcarsi, e naturalmente calciare il disco di elektron ramato che doveva essere infilato nella rete avversaria. Un gioco in sé banale, reso però attraente dai balenii iridescenti dei robot quando si spostavano e dai suoni catatonici emessi ogni volta che calciavano il disco lucente.
Barton, manco a dirlo, era il piú brillante. Con le due manopole non soltanto era svelto, ma sapeva spostare il suo robot in maniera veloce e razionale, facendolo arrivare quasi sempre per primo sul disco da colpire e riuscendo a indirizzarne la traiettoria in maniera infallibile verso la rete avversaria. Tutto, era chiaro, dipendeva dalla potenza telepatica delle onde emesse dal suo sensore e dalla rapidità di emissione dalla massa cerebrale, o forse da quel quid nascosto e inqualificabile che ogni creatura possiede, senza magari averne la piena consapevolezza.
La partita durò un’ora, con dieci minuti di intervallo. Vinse la squadra dei Verdi, col punteggio di sette a cinque, e il disco finale lo mise in rete proprio Barton. E Geon applaudí, con plateale euforia. Dopo ci furono le strette di mano, l’entusiasmo, i complimenti degli spettatori, la liturgia cameratesca dei giocatori.
Chris si era avvicinato al settore dove avveniva la festa, sollevando il capo oltre la marea di teste e di spalle. Intravisto il figlio, gli aveva fatto un leggero cenno di consenso, sorridendo e alzando per un attimo la mano, timidamente, con un certo impaccio. Come sempre gli capitava di agire col figlio, con un eterno senso di incompiutezza. La sua mano si ritrasse, come quella di un naufrago al di sopra delle onde, vano segnale al mondo prima di sprofondare…