Lisa Krugell
Lisa Krugell amava ogni aspetto della vita, con la passione e lo zelo di una vera artista. Ma sopra ogni cosa amava la pittura. Quando se ne rese conto, poco piú che adolescente, lasciò la sicurezza della sua famiglia borghese a Strasburgo e andò a Parigi. A quel tempo, i primi del Novecento, battezzare la propria vocazione artistica nelle acque della Senna era una specie di dovere estetico, una via iniziatica, come i patiti romantici del “Grand Tour” erano venuti in Italia per immergersi nel mare del mito e dell’antichità classica.
A Parigi, la bionda e acerba neofita alsaziana frequentò il grande Max René Bars, un monumento della corrente simbolista, un maître olimpico ed esigente, alla cui scuola si formavano artisti canonici, inseriti nella tradizione accademica.
Alla giovane Lisa, allevata in un asettico milieu di tradizione riformata, “le Paris bohémien et maudit” non piacque, e neppure si trovò a suo agio nell’atmosfera alquanto cupa ed oppressiva dello studio di Bars. Aveva scoperto Cézanne e il fascino che su di lui aveva esercitato il colore allo stato puro, la capacità dei toni di creare la forma, e di questa la possibilità di testimoniare l’essenza intima della luce animante le cose. Il sole, ecco il segreto!
E come una falena, Lisa si diresse al Sud, imitando Cézanne. Ma volle andare oltre la Provenza. Perché, come diceva, la luce dell’estrema regione meridionale della Francia risente troppo degli umori boreali delle Alpi incombenti e del grande Nord mitteleuropeo, ed è intrisa degli umidori di fiumi e canali che ne piegano lo spettro ai toni grigi anche quando, come nello stagno della Camargue, sembra avvampare le dune e le pozze paludose.
Nella mente della giovane pittrice, dall’anima metà francese e metà tedesca, risuonavano i versi di Goethe «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn…» (conosci tu il paese dove fioriscono i limoni…) e in Provenza c’erano pini, papaveri, grano e lavanda ma non i giardini di limoni e aranci sugli sfondi riverberanti dei marmi greci e romani.
E quindi le prime mete furono l’Egitto, la Turchia, Creta, la Macedonia e, al termine di questa quête du soleil finalmente la costa d’Amalfi. Qui Lisa trovò quella luce tersa e mite, permeata di turchino, l’aura di cui vibra il locus ceruleus, la zona eterica della piena armonia e serenità. E trovò anche una casa, tra mare, colline e cielo, che godeva del sole dal suo primo sorgere a levante, sopra la cima dell’Annunziata, fino a quasi il tramonto, dietro la punta turrita del Carusiello. Spesso, quando a mezzogiorno il raggio solare entrava dritto come una spada angelica nel suo studio – che aveva conservato il pavimento ruvido dell’originale casale rustico – fermando la mano armata di spatola o pennello, e tenendola sollevata tra lei e il balcone, recitava il verso di Pierre de Ronsard: «Oh soleil, toi sans qui les choses ne seraient que ce qu’elles sont!» (oh sole, tu senza cui le cose non sarebbero che ciò che sono!).
In quella specie di parallelepipedo che s’innestava sui bastioni della fortezza aragonese di Minori, squassata dalle onde in tempesta o lambita dalla dolcezza delle bonacce marine, Lisa aveva trovato la dimora incantata dove l’anima poteva abbandonarsi senza remore all’ispirazione. Minori e la “Torre” furono l’equivalente del magico giardino di Klingsor che Wagner aveva ravvisato a Ravello nel sortilegio umbratile di Villa Rufolo. In quello strano edificio oblungo che gareggiava in altezza con una palma annosa, anch’essa radicata nel basalto della fortezza, a sua volta quasi un tutt’uno con la scogliera, ’a francese, come la chiamavano i minoresi, svolgeva le sue semplici liturgie esistenziali: dipingeva, ascoltava le notizie del mondo e la musica classica dalla radio, un minuscolo apparecchio collocato sulla scrivania del salotto dove riceveva. Mai volle dotarsi della televisione. Leggeva molto. Anche le librerie, due nel salotto e una nella camera da letto-studio, al pari di altri mobili di cui disponeva la casa, armadi, madie e credenze, erano formate da mensole di legno che scandivano ampie e profonde nicchie, tipiche dell’architettura utilitaristica delle case coloniche della Costiera. I libri, non molti, prima di essere accettati da chi glieli offriva o proponeva, venivano tutti passati al vaglio di una scrupolosa disamina critica, non dettata da esigenze accademiche e letterarie. Italiani, francesi o tedeschi che fossero, le tematiche dovevano soprattutto privilegiare la capacità dell’autore di valicare le soglie della realtà e condurre il lettore in una dimensione immaginifica propria dell’arte.
Accanto a Goethe, Schiller e D’Annunzio, da lei molto ammirati, poneva uno scrittore tedesco, che si faceva chiamare “Baron Corvo” (Frederick William Rolfe, 1860-1913), autore di romanzi ambientati in un’Italia mitico-magica, e il prematuramente scomparso Raymond Radiguet, non tanto per il sensuale e tragico Diable au corps, quanto per l’ineffabile racconto di fantasmagoriche atmosfere del Bal du comte d’Orgel.
Si circondava di pochi oggetti, alcuni dei quali erano veri e propri segnali archetipici: una lucerna cretese vecchia di tremila anni, la riproduzione della testa di un cavallo dal fregio del Partenone di Fidia, un ramo di corallo rosso che le avevano portato da Palinuro, quando ancora quel mare non aveva subíto razzie e inquinamento, e poi ancora alcuni Kilim turchi con i quali addolciva l’asperità dei pavimenti rustici.
Le pareti erano scialbate a calce. Vi spiccavano una copia del Jeune homme au gilet rouge, di Cézanne, un grande ritratto del padre da lei magistralmente eseguito, e poi alcuni acquerelli di paesaggi mediterranei ripresi en plein air durante le sue peregrinazioni alla ricerca della “luce vera”.
Credeva in Dio, ma non in quello delle processioni folcloristiche che si tenevano nei paesi della Costiera. Anche se si diceva battezzata. Raccontava delle funzioni religiose alle quali assisteva da bambina a Strasburgo. Nella chiesa frequentata dalla famiglia suonava l’organo monumentale un caro amico dei Krugell: il giovane Albert Schweitzer, che doveva piú tardi, in veste di dottore e missionario di carità, partire anche lui alla ricerca di un sole diverso, quello che bruciava la torrida realtà del paesaggio africano.
Lisa Krugell possedeva una fede del tutto personale nell’essenza del divino, cosí come l’arte riesce a definirla e trasmetterla al mondo: solare, provvida, trasfigurata e consolatoria. Per conoscere quell’essenza e possederla, diceva, gli uomini devono ritrovare l’innocenza delle origini, la stessa che lei sapeva scorgere nelle colonne scarnificate dei templi di Paestum, testimoni della grecità arcaica non ancora chiusa nei dogmi della classicità o scivolata nella degenerazione ellenistica. Eternamente attuale. Credeva nell’ordine perfetto voluto dalla divinità per tutte le cose create. Quell’armonia che lei, venuta dal Nord, aveva per tutta la vita cercata e forse, alla fine, trovata.
Morí in una chiara e mite giornata settembrina, al declinare del sole. Mentre era in vita, piú volte aveva espresso il desiderio che il suo corpo venisse dato alla Facoltà di Anatomia dell’Università di Napoli, o altrimenti cremato. Né l’una né l’altra delle due volontà poté essere rispettata. Vi si opposero con feroce determinazione i due affezionati domestici, che per lunghi anni le erano stati a fianco, e la quasi totalità dei minoresi. In ciò rivelando, oltre a uno scontato rispetto per i dettami religiosi, quanto amore e devozione avessero nutrito per lei da viva, pur tacendo i loro sentimenti o ammantandoli di finto riserbo. Perduta l’anima dell’artista, volevano conservarne almeno il corpo per onorarlo con un fiore.
L’avrebbero per sempre ricordata in sella a quel buffo ciclomotore Solex, mentre si recava alla scuola dove aveva insegnato francese per anni, meravigliati per la disinibizione e il coraggio di quella donna che viveva da sola in una casa isolata e aspra.
Era stata in definitiva sempre sola, Lisa Krugell, anche durante il periodo in cui aveva vissuto l’unico vero grande amore della sua vita, che la guerra aveva troncato, e di cui parlava di rado, con ritrosia.
Tra le reliquie della sua intensa vicenda esistenziale, al momento di liquidare gli arredi, appeso nella sala da pranzo fu trovato un piatto di maiolica alsaziana dipinto a mano in toni blu scuri. Mostrava un uomo solitario seduto in riva a un ruscello, che guardava un paesaggio romantico. “L’exilé”: questo era il titolo che vi si leggeva. Lisa l’aveva tenuto con sé tutta la vita.
Fulvio Di Lieto