di Andrea di Furia
Presso i popoli antichi, infuriando una pestilenza, una carestia o una siccità, oppure negli scenari stravolti dalla furia della guerra, i sacerdoti e gli sciamani percorrevano le vie delle città o i sentieri di campagna e montagna, portando in processione statue, immagini e reliquie dai poteri apotropaici e taumaturgici affinché il morbo cessasse, la terra riacquistasse la sua fertilità e la pioggia cadesse ripristinando sorgenti e umori linfatici. In un mondo, quello attuale, colpito da una delle più gravi epidemie mai registrate negli annali‒ la crisi finanziaria globale dovuta al denaro che fa il denaro, alla ricchezza mal distribuita, alla speculazione sul lavoro, sui farmaci, sulle armi, sulla tecnologia ‒ Andrea di Furia procede intemerato e imperterrito issando alto e forte il suo totem esorcizzante: un libro, il terzo, che tratta degli scompensi sociali, locali e internazionali, individuandone le cause solo in apparenza di ordine materiale, ma nella loro più profonda essenza squisitamente di tipo morale.
Pertanto, più che proporre un’ennesima formula tecnica elaborata da una delle tante scuole economiche del mondo, di cui avvertiamo i reiterati fallimenti nella dimensione reale e fisica della società umana universale, di Furia affida la cerchiatura del quadrato, ossia la soluzione ai guai del mondo, tra il paradosso e il miracolo, alla Tripartizione dell’organismo sociale, come preconizzata da Rudolf Steiner quale unica e risolutiva progettazione del benessere dei popoli in termini spirituali, essendo, come dice il Vangelo, lo Spirito garanzia della materia e non questa garanzia dello Spirito.
Fedele a una rodata metodica, di Furia non ricorre nella sua proposta al supporto di tecnici d’alto rango, i famosi esperti che vediamo tutti i giorni, specie di sera, imbonirci dallo schermo circa la bontà di un sistema o di un altro, lasciandoci però, nel paludoso fronte terrestre, più scarni di prima. Egli è uomo avvisato, ed escludendo perciò i personaggi che bazzicano, a suon di favolosi cachet presenzialisti, i salotti e gli studi televisivi, affida la soluzione a chi vive “nel foco che li affina”, ovverossia a una schiera di diavoli che fanno il diavolo a quattro per impedire la soluzione delle problematiche sul tappeto: soggetti che esulano dai giochi di potere ed esenti da brame materiche.
Non tutti i diavoli al dunque brandiscono forconi, sillabano trivialità e arrostiscono, con goduria, i dannati. Il lettore dei precedenti libri di Andrea di Furia, frequentando l’Arcontato delle Tenebre, il luogo, lo scenario, o meglio il set, in cui l’autore ambienta le sue infernali vicende, ha potuto verificare la fondatezza dell’antico adagio che recita: il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge. Ma allo stesso modo teme che sia veridico anche quello che avvisa: a scherzare col fuoco ci si brucia. Nel senso che trafficando con gli operatori del Male ‒ sia quelli che frequentano la paludata Fanatic University che quelli iscritti alla corriva e popolare Furbonia University ‒ si rischia di venire in qualche modo contaminati dal modus operandi, fuori da ogni schema tattico, e meno che mai etico, degli agenti esperti in Damnatio Administration: nella fattispecie la sagace quanto avvenente Vermilingua e il suo partner in media deviati, l’impegnatissimo Giunior Dabliu, entrambi nell’organigramma del Daily Horror Chronicle, il maldicente quotidiano dell’Arcontato.
Il lettore non tema. Col tempo, anche il Male ha acquisito un suo stile: non più sferragliare di catene, zaffate di fumi pestiferi, borborigmi e sconcezze di repertorio, bensì, a corredo delle pagine del libro di Andrea di Furia, il carisma lirico di Goethe, erompente dai versi immortali, possenti mantra salvifici che redimono. Parole che cedono cadenza e afflato all’azione.
Su quel granulo cosmico vagante, che è la Terra delle umane creature ‒ le vittimucce predestinate alla perdizione ‒ agiscono quindi fior di diavoli laureati in Damnatio Administration, che tra un daiquiri con gocce di impostura e l’altro, dopo un gagliardo rissa-party, si dannano l’anima per far dannare gli uomini e le donne. Ignorano però ‒ e questo è il limite fissato dal Demiurgo, il dilettante allo sbaraglio, come lo ha bollato nonno Berlicche ‒ che entrando in contatto con la creatura umana possono subire la contaminazione del suo tendere, per conformazione animica, alla redenzione in extremis. In questa mischia corpo a corpo tra coorti angeliche e schiere infere, chiunque può correre il rischio della contaminazione, persino un emerito rappresentante delle Malebolge.
Chi non ricorda il triste caso dello zio Malacoda, contagiato dalla tabe angelica per il troppo, ossessivo contendersi, a marcatura stretta con gli Agenti del Nemico, il possesso definitivo del breakfast animico, ossia degli abitanti del paludoso fronte terrestre: entità guidate, durante i precedenti eoni delle trascorse civiltà, dalla spiritualità, sebbene caratterizzata da una religiosità esasperata, ma oggi schiave di una corporeità estrinsecata in un’incontrollabile, degradante irritualità materialistica. Nella loro azione per dannare la gran massa delle caramellate caviucce, quei sabotatori inferi rischiano di prendersi il virus che contagiò a suo tempo zio Malacoda: l’amarcord della natura angelica, suprema e irreversibile contaminazione che gli esoteristi più spregiudicati definiscono reintegrazione.
E del resto, la letteratura ci fornisce vari esempi di eccelsi operatori del Male che finiscono, come Mefistofele nel Faust, col gratificare di ogni sollazzo e privilegio un soggetto umano tormentato dalla insoddisfazione e dal dubbio, con la speranza di possederne alla fine l’Io, per vederselo invece strappare dalle grinfie all’ultimo momento dalle Coorti del Nemico. Si prefiggono, cioè, quegli operatori infernali, di fare il Male, cosa che del resto ci si aspetta da loro, ma alla fine, non si sa come e perché, le loro strategie operative producono il Bene. Ecco allora che dagli scambi epistolari tra Giunior Dabliu e Vermilingua, fraudolentemente sottratti e fatti circolare, si può ricavare un onesto e risolutivo vademecum istituzionale. Vale a dire che i Bramosi Pastori e i Malefici Custodi, partiti dall’Arcontato delle Tenebre per inferire il colpo mortale alla vacillante civiltà umana, le regalano invece il kit per la salvezza e la restaurazione. E questo rivaluta l’adagio di antica saggezza: non tutti i mali vengono per nuocere. Anzi.
Sarà questa la centratura del quadrato, di cui parla di Furia in questa sua fatica letteraria. Proponendosi finalità pragmatiche, elaborando geniali (o diaboliche?) soluzioni socioeconomiche, finanziarie e geopolitiche, con le opportune correzioni degli effetti dello Slittamento laterale degenerativo, egli tenta in realtà di smussare gli spigoli del recinto materico in cui le entità arimaniche hanno rinchiuso l’uomo, per dargli la libertà in una dimensione in cui si circola appunto senza urti, senza attriti e conflitti di competenza, secondo la steineriana Tripartizione dell’organismo sociale. Formula questa che l’Autore ha scelto come cartina di tornasole per qualsivoglia strategia di conduzione materiale e spirituale del mondo e dell’umanità.
Dall’osmosi finale tra Bene e Male ‒ e di Furia sembra far convergere le tesi della sua avvincente trilogia verso tale esito ‒ nascerà quindi l’Essere che, avendo risolto in sé il conflitto mazdaico, sarà in grado di affrontare il sesto eone di civiltà, con il Male incatenato.
Riuscirà l’Autore con questo suo ennesimo impegno a far entrare il concetto di Tripartizione dei poteri sociali nella considerazione di chi è incaricato di gestire il governo degli Stati e delle popolazioni? La speranza è l’ultima dea, recita il noto adagio, e un altro assicura che, per quanto sia piccola cosa leggera, la goccia alla fine buca la pietra. Di Furia della goccia perforante ha la perseveranza e la forza che gli viene dalla conoscenza spirituale. Provando e riprovando, insistendo, pregando, si farà. Con le mille e più parole di un libro, con l’esempio e l’azione. Con il pensiero al suo nucleo divino.
Fulvio Di Lieto