Il sogno avventuroso

Liliana Macera

Quando di una persona si dice che ama e pratica la Poesia, nella mente dei più si delinea una specie di individualità rapita in voli pindarici, avulsa dalla realtà, con poca o nulla versatilità nelle faccende pratiche e conclusive. Insomma, una sorta di entità animica aliena alla realtà del vivere concreto, incapace di produrre un che di solido e duraturo, e quindi votata a una vacua presenza nello scenario delle attività umane, mentre dovrebbe , secondo Dante, perseguire “virtute e conoscenza”.

Tra gli altri luoghi comuni che riguardano la Poesia c’è quello che ne limita l’esercizio alla nuda e cruda, più o meno faticosa, più o meno valida, elaborazione di versi, siano in rima, liberi o ermetici.

Almeno tale è l’accezione ormai vigente presso gli ambiti culturali e accademici, in Italia e altrove.

I Greci antichi, che la sapevano lunga in fatto di simboli e significati metafisici e trascendenti, parlando di Poesia usavano una parola, più esattamente un verbo: dicevano poiein ossia ‘fare’, e non in senso traslato o astratto ma reale. Per loro la Poesia non era volo librato sulla vita ma immersione totale, profonda, nella materia esistenziale. Si faceva Poesia nella Grecia antica scrivendo l’Iliade e l’Odissea, gli epinici di Pindaro, ma anche scolpendo i marmi del Partenone, la Venere Callipigia, fondendo i Bronzi di Riace, dipingendo gli affreschi di Cnosso e di Akrotiri, e quelli di Pompei, che erano essenzialmente greci nella loro più viva essenza ed esecuzione formale. Poeta era nella Grecia arcaica e classica chiunque si proponesse di ricavare dalla materia bruta e inerte la luce eterica in grado di aiutare l’uomo a trasfigurare e sublimare la caducità della sua natura fisica.

Percorrendo la biografia di Liliana Macera, contenuta nella pagine di un intenso diario reso disponibile alla vasta cerchia di chi partecipa alla sua vicenda creativa, dal titolo Provette e alambicchi, appare quanto mai chiaro che il concetto greco di Poesia sia il suo dettato operativo, come lei stessa rivela in un passaggio del libro: «Ho avuto la fortuna di godere esperienze importanti sia nella vita affettiva che in quella culturale e sociale. Avendo oggi smesso l’attività lavorativa come ricercatrice scientifica [dottorato in Biologia e Patologia, ricerca su cellule staminali e tumorali, n.d. r.], i miei interessi sono volti soprattutto alla parte artistica, che ho sempre coltivato. Il suo fascino consiste non solo nella ricchezza della melodia interiore, ma soprattutto nel sentimento del colore. Scolpisco, scrivo, fotografo e dipingo con tenacia e concentrazione, spinta da una ricerca di perfezione che non trova riscontro in alcuna realtà esistente, ma che è per me un invito a proseguire, ad andare avanti. La pittura e la poesia sono una parte squisita e nutriente della mia vita quotidiana: in esse è evidente il mio desiderio di dialogare, di trasmettere la mia intensità emotiva. Imprimo nella materia quella energia e quell’armonia che recano in sé un messaggio di cui tutti possono usufruire».

Basterebbe questa appassionata dichiarazione di intenti per stilare una scheda delle pulsioni ispirative che muovono l’estro più segreto dell’artista. Ma leggendo queste parole, che sono al tempo stesso una specie di confessione, o se vogliamo amicale confidenza, altri aspetti animici si delineano accanto a quelli squisitamente operativi. Liliana Macera, educata alla sua professionalità e all’etica che la sottintende, non cerca di penetrare il nucleo geloso della materia per un narcisistico appagamento. Così, come indagando il mistero delle cellule nel suo laboratorio di patologia la ricercatrice di rango tenta di carpire i meccanismi segreti che muovono la vita non per farne un trofeo scientifico bensì per elaborare ritrovati salvifici, allo stesso modo con la sua ricerca formale e figurativa Liliana Macera tenta, provando e riprovando, con passione e tenacia, di carpire alla materia inerte e sorda il fuoco esaltante e vivificante, ambizione primigenia dell’umano a divinizzarsi.

Ecco quindi accanto alla simmetria la melodia, l’armonioso elisir di energia che dall’alambicco interiore dell’artista si travasa nell’apparato emozionale del fruitore dell’opera, attraverso la percezione e l’assimilazione dei valori umani, intellettuali e, nel caso della Macera, di valenza spirituale. Dare, offrire doni sublimativi sembra essere quindi l’intento primo e ultimo di questa ancella dell’arte, che da vera entronauta affronta la più temeraria delle imprese: conoscere se stessa. E lo fa con mano sicura e mente concentrata sull’oggetto. Poiché solo scoprendo il proprio io, l’artista si rende terapeuta dei dolori dell’uomo, avendo esorcizzato le proprie angosce, avendo dominato il caos, che risulta essere in quest’epoca – una delle più difficili della civiltà umana – il Male oscuro. Caos, tenebra e confusione sono i connotati della materialità che ha vinto l’ordine, la luce e la perfezione.

Liliana Macera con le sue sculture, i suoi dipinti, le sue immagini ora liriche ora icastiche, volge il fare al canone che fu dei Greci: catturare dal cosmo agitato dalle passioni dionisiache l’apollinea luminosità solare. Preludio a un’arte che aprirà all’uomo relativista la via dello Spirito.

Ma non è soltanto plasmando la creta, fondendo il bronzo, incidendo il rame, sbozzando il marmo, lavorando sapientemente la mestica dei suoi personalissimi colori che domano in compostezza tonale l’esuberanza dell’arcobaleno, non è soltanto con questi ritrovati materici, benché trasfiguranti, che Liliana Macera ingaggia la lotta contro la prosaicità del nostro vivere rapsodico e derivante. Lei usa anche la parola, lo strumento che, sempre i Greci, consideravano il più prossimo alla verità, in quanto emesso direttamente dal corpo umano senza l’intermediazione inficiante di oggetti e meccanismi artificiali, e pertanto non condizionato dalla materialità. Ce lo racconta ancora il suo diario: «Scrivere è un potere magico, stupendo a volte, è infinita libertà, è come parlare: forse qualcuno ti ascolta. È un viaggio che compio dentro di me, e alla fine del quale subisco un cambiamento: padrona di quello che scrivo, soggetto di ciò che immagino, scrivo ciò che desidero e ciò che sogno, provo emozioni, suggestioni, stimoli. Scrivo di notte in genere, mentre la casa e tutto intorno dorme. Accompagno me stessa, descrivendo persone e fatti, attraverso una magnifica avventura: quella della mia vita».

Ecco allora entrare nel gioco ispirativo e poi creativo dell’artista il sogno, la magia, ma soprattutto la libertà del fare e dell’essere, che rappresentano in realtà lo scopo ultimo del viaggio che l’argonauta espressivo compie: essere se stesso per aiutare gli altri a conoscersi, a prendere atto della propria identità, il Sé della compiutezza interiore, metafisica, uscendo dal bozzolo della fisicità e acquisire le ali della trasumanazione dall’ottundente oggettualità. In certi dipinti della Macera l’anelito al volo, alla liberazione dalla pania della materia tarpante è, se non chiaramente espresso, implicitamente accennato nelle vesti smosse dal vento, nei gesti che mimano la tensione alare, negli ombrelli che richiamano mongolfiere nel momento del distacco dalla terra. La libertà dell’Io.

Che non può essere acquisita e trasmessa senza la consapevolezza di tendere al sublime, al divino.

Lo apprendiamo dalle parole che Liliana Macera consegna alla pagine del suo avventuroso sogno: «Ma che cos’è la libertà? La libertà bisogna saperla gestire. La libertà ci dà dignità, ci permette di decidere e di prenderci la libertà di operare scelte, ci consente di amare e di essere creativi, di ubbidire senza essere servili, di avere coraggio. Io credo che sia la scelta umana che ci fa assomigliare a Dio».

Una delle forme di libertà che viene concessa oggi è viaggiare, per vedere e conoscere, per scoprire ciò che manca alla nostra vita, e possibilmente imparare l’emozione dello scambio di interiorità. Liliana Macera ha molto viaggiato perché voleva molto vedere, scoprire, imparare, per la sua arte e per la sua interiorità di donna impegnata e di artista creativa. Il mondo è entrato nella sua sfera mentale e sentimentale, l’ha accresciuta di valori invisibili all’apparenza ma veicolati dalla sua personalità ricettiva e sensibile nel prodotto della sua espressività. Foto, memorie, sensazioni, un turbinio di immagini che finivano poi sempre a racchiudersi nell’universo protetto ed esclusivo, il buen retiro della sua anima appassionata: la sua casa sul mare a Lido dei Pini. Qui l’ambiente la riportava alla naturalità e domesticità dei rapporti, ma anche alla casualità prodigiosa dell’happening: il messaggio in bottiglia affidato all’oceano da un marinaio americano che aveva perduto la sua donna. Dopo un periplo di mesi le correnti l’avevano portato sulla battigia proprio davanti alla casa dove l’artista trascorreva le sue giornate di libertà. Coincidenze? Forse. Predestinazione al miracolo, alla meraviglia inattesa, o dono gratuito per animare racconti, per compiere l’eterno sortilegio della materia che diventa favola, del prosaico che si fa poesia, del quotidiano che si trasforma in eternità.

Tutte queste cose, semplici e straordinarie, vere e sognanti, formano l’arte e la vita di questa multiforme artista.

Fulvio Di Lieto


Pubblicato in «Culture» Rivista Internazionale d’Arte e Cultura, Organo dell’Istituto Europeo delle Politiche Culturali ed Ambientali – “Speciale Liliana Macera”, Luglio-Settembre 2011