Ed. Phasar – 2012
L’elicottero speciale che trasportava il ministro dell’Ambiente Paolo Sereni e la sua équipe di tecnici ed esperti, in tutto dodici persone, compresa la bella segretaria del ministro, Sonia Galanti, decollò dall’aeroporto militare di Piana del Colle presso Foggia con il bel tempo. Soffiava soltanto un vento teso dai Balcani, lo stesso che aveva alimentato per piú di una settimana gli incendi che avevano mandato in cenere una buona metà del patrimonio boschivo del Gargano. Cerri e abeti secolari, pini e lecci maestosi si erano offerti in olocausto al fuoco che era divampato furioso e incontenibile, senza una causa apparente.Come per gli altri vasti incendi che per tutta l’estate avevano divorato le foreste del Trentino e della Valle d’Aosta, nella Sila in Calabria e nel Pollino lucano, e in forma meno violenta ed estesa in Sicilia e Sardegna, si era parlato dei soliti atti dolosi di vandali o speculatori edilizi. Ma l’ampiezza geografica dei fenomeni che avevano riguardato per mesi, oltre all’Italia, diversi altri Paesi dei vari continenti, e la violenza catastrofica degli incendi, avevano fatto ipotizzare alla fine cause di portata planetaria, persino cosmica. Le tempeste solari venivano particolarmente chiamate in causa, seguite dal surriscaldamento degli oceani, dall’aumento dei gas serra, CO2 e NO2 in testa, e poi, secondo la vulgata demonizzatrice dei media occidentali, dai fumi dei complessi industriali di Cina e India, aggravati, in questi due Paesi dalle economie emergenti, dalle esalazioni di milioni, anzi miliardi di forni e fornelli per cuocere pane, focacce e pizzette, il cui consumo, grazie al conquistato benessere, si era innalzato a livelli sesquipedali. Ma erano, queste ultime, solo malevole illazioni propalate dai media dei Paesi occidentali, incapaci di reggere la concorrenza di popoli per secoli colonizzati e che adesso si rifacevano dei loro antichi padroni e mèntori battendoli con la forza del numero e la capacità operativa.
Alle 16.57 la voce del comandante annunciò: «Stiamo sorvolando Castel del Monte. È sotto di noi, sulla sinistra».
L’elicottero stava ancora salendo in quota, e la forma ottagona del Castello di Federico II si rese visibile nell’ultima luce dorata del giorno che declinava.
«Forse il professor Paciago vorrà spiegarci cos’è esattamente il Castello…» disse con fare provocatorio uno del gruppo, un ingegnere del CNR, distogliendo lo sguardo dall’oblò e posandolo sulla figura di un uomo sulla cinquantina seduto sull’altro lato del velivolo.
L’elicottero si distaccò dalla visione della pianura, virando. Il Castello disparve per lasciar posto prima all’azzurro imbrunito, poi alle nuvole compatte che avevano creato un tappeto di ovatta in basso.
Alla fine il grosso velivolo turbo a pale si assestò in quota, a un’altezza che gli avrebbe consentito, se necessario, di superare anche le cime piú alte del Gran Sasso. Ma la rotta autorizzata non prevedeva di salire cosí in alto.
L’interpellato, il professore, rispose calmo, volgendo appena gli occhi verso il suo interlocutore: «Mistero, soltanto mistero, caro dottor Salemme. Il Castello è un enigma che nessuno è riuscito a spiegare finora. Si figuri se posso farlo io». Dopo una breve pausa aggiunse, come se parlasse al vuoto in cui si libravano: «È solo emozione, vertigine. Il Castello va soltanto visto e percepito dalla forza dell’anima di ciascun visitatore, e parla a ognuno in maniera diversa. Ecco cos’è».
In cabina di pilotaggio erano già in contatto con l’aeroporto di Ciampino. «Mi confermate la piattaforma di atterraggio lato Appia?» stava chiedendo il secondo pilota alla torre di controllo.
«Confermato… Tutto come stabilito» fu la risposta.
«E il servizio d’ordine per il ministro?» intervenne il comandante.
«È pronto al suo posto, come bravi soldatini…» ironizzò la voce in collegamento dall’aeroporto.
«Bene, saremo da voi tra trentacinque minuti» seguitò il secondo pilota. «Com’è il tempo?».
«Da noi buono, sgombro. Troverete solo qualche raffica di traverso dopo il Gran Sasso. Sono previste nuvole basse, ma niente di serio. A presto».
Un enorme fungo grigio si parò infatti davanti all’elicottero appena superate le montagne. I rotori avevano sollevato con un leggero sibilo il velivolo, spingendolo oltre.
«Io quello lo eviterei» suggerí il secondo pilota.
«D’accordo» disse il comandante «abbassiamoci, tanto comunque dobbiamo scendere tra poco…».
«E quelli che vogliono?». Il giovane navigatore si riferiva a un gruppo di luci apparse all’improvviso proprio alla sommità del cumulo nembo.
«Di chi è il compleanno?» ironizzò il secondo pilota. «Sembra una torta con le candeline… Ehi, ma quelli ci vengono addosso!».
«Giú,» disse concitato il comandante «andiamo giú, quelli ce l’hanno con noi…».
«Accidenti» gridò il secondo pilota «ma qui è tutto bloccato!».
Furono le ultime parole udite dalla torre di controllo. Restarono senza risposta le continue, pressanti richieste di chiarimenti all’equipaggio del Chinook. L’elicottero venne giú con un enorme sibilo, senza fiamme, come un grosso uccello stroncato da un colpo di fucile. Pochi attimi di vibrazioni della struttura per reggere l’urto dell’aria. Terminò la caduta sfiorando le cime degli alberi di un bosco di faggi lungo i fianchi del monte Cervia. I due piloti tentarono con una manovra disperata di mantenere l’assetto del velivolo azionando i dispositivi di frenaggio. Superato il folto degli alberi, una radura si presentò davanti al muso inclinato del Chinook, con l’illusione di poter rappresentare la salvezza di un atterraggio di fortuna. Un gregge di pecore si sparpagliò nel terrore per tutto il pianoro, mentre il velivolo ormai senza controllo arava l’erba, scheggiava i sassi, impattava infine col suolo. L’urto lo smembrò in pezzi man mano che incideva il terreno, in un fracasso di strutture sottoposte all’attrito. Perse un rotore, poi il corpo residuo si pose di traverso, arrestandosi. Superato lo spavento immediato, i guardiani del gregge si fecero coraggio e accorsero, estrassero i corpi dalla carlinga e li distesero, cosí come poterono recuperarli, disarticolati, alcuni mutilati, sul prato della brughiera. Due corpi, quello del ministro e della sua segretaria, vennero trovati stretti abbracciati. Li separarono con una certa fatica. Oltre a quelli dei due piloti, furono contati undici corpi dai soccorritori che avevano compiuto la coraggiosa azione, e dalle forze di polizia allertate che giunsero sul pianoro. Mancava, dissero, il corpo del professor Paciago.
I due pastori raccontarono, per bocca di uno di loro, un macedone che parlava un italiano decente, di aver visto uscire dal velivolo subito dopo l’impatto la sagoma di un uomo, che si era allontanata rapidamente giú per la china del monte, scomparendo nell’oscurità che ormai avvolgeva il paesaggio. Il portavoce dei due pastori disse di chiamarsi Dani Paniuck, e giurò su quanto avevano visto lui e il suo compagno, anche lui macedone, che confermava con vigorosi cenni della testa le sue parole.
Ma gli agenti di polizia e del corpo forestale, saliti al pianoro, non diedero peso alla testimonianza dei due, anche perché il comandante della pattuglia dei forestali, che li conosceva, rivelò che il Paniuck era noto nella zona come un forte bevitore di grappa. Gli avevano affibbiato infatti un soprannome, “Slivoviz”, che in slavo indica un liquore molto forte estratto dalle prugne. Rimaneva comunque il mistero della mancanza del corpo dell’ingegner Aldo Paciago. Alla partenza si era imbarcato con l’équipe di Sereni sull’elicottero. Lo confermavano gli addetti che avevano curato i preliminari del volo speciale. E non bevevano grappa, tenne a dire il responsabile.